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Il vero made in italy su TikTok. Due professioniste raccontano la filiera

Published 22 hours ago8 minute read

Parlare di moda sui social senza fare riferimento alle tendenze, evitando gli haul compulsivi, i commenti sui front row e gli immancabili GRWM (get ready with me). Discorrere invece di scioperi aziendali, spiegare cos’è la tintura in capo, parlare di overrunning e di contraffazione. È ciò che contraddistingue i profili e di e . La bio della prima riporta in poche parole la sua professione on e offline: “Ho una fabbrica di borse. Creo e racconto il made in Italy”, l’altra invece si descrive così: “Da 20 anni nella moda. Ossessionata dalla qualità e dal made in Italy. Ne vale la pena?”. Il quesito finale fa riferimento al format che ha reso popolare Salerno, fashion product developer marchigiana che ha intrapreso una vera e propria battaglia contro il fast fashion in virtù dello shopping consapevole. In pochi minuti analizza i capi di marchi low cost così come le proposte dei luxury brand, soffermandosi sulla composizione degli indumenti e il Paese di produzione in relazione al prezzo. Oltre a riflettere sullo stato attuale in cui versa il settore moda e commentare le notizie di attualità, Auzino recensisce le borse della sua collezione personale descrivendone pregi e difetti. I commenti alimentano spesso un dibattito fatto di domande, consigli, informazioni e qualche acceso scontro verbale. Le due content creator sono un megafono inedito della filiera italiana, inspiegabilmente silente rispetto alla raffica di post, reel e stories che alimentano la comunicazione della moda sui social, nel bene e nel male.


“Il mio messaggio unisce l’attivismo per il made in Italy e la lotta alla contraffazione, due temi che mi stanno a cuore da sempre – spiega Auzino motivando la scelta di approdare sui social -. Inoltre amo il mio lavoro, amo la produzione conto terzi, quando ne parlo sembra quasi debba essere debellata, però poi non si capisce chi realizzerebbe le collezioni, dallo sviluppo di piccole produzioni per marchi indipendenti ai grandi brand”. Prima di sbarcare sui social, Auzino era già attiva su : “ho aperto il mio account 11 anni fa e ho cominciato a raccontare – spiega – l’ho fatto anche per una forma di rivalsa. Da produttrice napoletana sono sempre stata associata ai falsi, cosa che, ad esempio, a una collega toscano non succede. Ho iniziato mostrando la tradizione della pelletteria partenopea, magari in maniera amatoriale, e non mi sono più fermata”.
Salerno invece è stata spinta da una crescente insoddisfazione: “Ero stanca di vedere tantissimi creator che parlavano di moda, soprattutto giovani, senza sapere palesemente niente di cosa c’è veramente dietro la produzione di un capo d’abbigliamento. Il primo video che ho fatto era un parere tecnico di una sfilata di Erdem; tanti commentavano le sfilate ma non ponevano l’accento sulle cose che io invece ritenevo molto importanti. Ho raccolto subito una grande partecipazione, i commenti mi hanno spinta a proseguire e approfondire. Col tempo – continua Salerno – mi sono resa conto di quanto le persone avessero proprio bisogno di sapere tutto ciò che c’è dietro alla produzione di un indumento. Mi fa davvero piacere leggere che alcuni miei follower hanno smesso di comprare fast fashion e leggono con attenzione le etichette composizione. Hanno iniziato a capire perché è importante acquistare made in Italy. È l’aspetto di cui sono più fiera, significa che un piccolo pezzo di mondo posso cambiarlo anch’io”.
Entrambe hanno le idee chiare sull’assenza degli attori della filiera italiana sui social network. “Bisogna partire dal concetto che i terzisti reputano inutile la parte commerciale, anche banalmente raccontare quello che fanno a meno che non sia in modo autocelebrativo, quindi non aggiungendo valore alla community – chiarisce subito l’imprenditrice campana -. In primis la colpa è proprio legata alla cultura del settore in cui purtroppo c’è poca scolarizzazione, gli artigiani sono chiusi. C’è anche chi ha paura di esporsi facendo semplicemente del content marketing, urtando la suscettibilità di quel manager o di quel brand o di quel potenziale cliente”. Auzino ricorda che occorre tempo per comprendere i social. “Io – aggiunge – ho dovuto delegare alcune mansioni perché ritengo strategico essere su questi canali però capisco anche che per alcuni è difficile fare i video, difficile creare una narrativa anche coinvolgente, manca proprio una struttura culturale. Adesso fortunatamente ci sono tanti corsi di formazione che andrebbero frequentati proprio dagli imprenditori, occorre modernizzarsi nella comunicazione senza paura di esporsi”. “C’è una doppia responsabilità – aggiunge la collega marchigiana -. Da un lato i brand, di qualsiasi fascia prezzo, non hanno mai pensato fosse interessante far capire al cliente finale quanto lavoro c’è dietro all’abbigliamento. Dall’altra parte c’è la filiera che non ama raccontarsi e che ha sempre lavorato nell’ombra, ha sempre creduto che non fosse necessario farsi vedere, anzi rappresentasse quasi un elemento di fastidio anziché un valore aggiunto. I social sicuramente hanno cambiato questo paradigma in entrambi i casi. La produzione è un mondo incredibilmente affascinante, la creatività nel mondo della moda non è solo appannaggio degli stilisti o dei direttori creativi, ma è un lavoro collettivo fatto da tantissimi attori, ad esempio da chi disegna i tessuti a chi realizza materialmente i ricami. Non devono aver paura di mostrare cose che possono apparire anche molto specifiche perché di solito sono proprio quelle a caratterizzarli”.
Entrambe concordano sul talento dei player oltre confine rispetto a quelli italiani nell’utilizzo dei social: “I terzisti esteri sono molto più bravi, a partire da turchi e cinesi. Da anni ricevo contatti da gruppi cinesi per produrre, per collaborare, loro sono molto più organizzati e aggressivi di noi. Gli italiani pensano che chi si propone online non sia bravo, i cinesi invece pensano a fare i numeri e piano piano stanno acquisendo visibilità anche sui social”, afferma Auzino. “Basta vedere la battaglia mediatica che è stata fatta dopo i dazi di Trump dai cinesi su TikTok: all’estero hanno compreso bene l’enorme potere dei social e lo usano anche a livello colposo. Anche i francesi hanno capito l’immenso potere del marketing mentre l’Italia è ancora un po’ indietro. Lo dico sempre e non è una critica ma è un un dato di fatto: siamo molto bravi a fare e poco a vendere. Comunichiamo in maniera poco interattiva”, riflette Salerno.


A differenza della filiera, i brand e gli stilisti sono molto presenti sui social, seguiti da milioni di follower. È una strategia vincente? “Dal punto di vista dei creativi direi che hanno fatto ‘bingo’. Alcuni sono diventati influencer e riescono a far innamorare anche dei propri prodotti. Ci sono pro e contro. Ad esempio, i direttori creativi dei brand di non sono mai in primo piano, persino (direttore creativo del menswear di , ndr). Invece quelli di sembrano quasi più importanti delle maison e ciò fa acquistare valore. Ad esempio che approda da portando con sé il proprio seguito, recando un danno a , fa presupporre che andrebbe un po’ gestita la forte comunicazione delle aree creative. Allo stesso tempo Kering scommette molto di più sui giovani come . E chi era Michele prima di diventare Michele? Sicuramente un ragazzo talentuoso che faceva parte di un team ma il pubblico non lo conosceva”, dichiara Auzino.
Salerno è più critica: “Sicuramente sono bravissimi nell’estetica, hanno capito perfettamente il linguaggio del marketing, si affidano a professionisti in gamba. Ma la loro narrazione è troppo romanzata e gli utenti sono saturi di questo racconto molto patinato, vicino al linguaggio pubblicitario e infatti le interazioni calano. Altre volte raccontano una realtà non vera, perché le maison del lusso hanno iniziato a mostrare i loro processi produttivi concentrandosi su un’artigianalità che nell’operatività non fanno, i capi non vengono realizzati tutti nei loro atelier come vogliono far credere, sarebbe materialmente impossibile. I brand del lusso dovrebbero invece raccontare di più la filiera perché è un punto di merito dare lavoro a tante persone sostenendo il ‘Sistema Paese’. Cucinelli ci ha costruito un brand su questo e i fatti gli hanno dato ragione. Non capisco perché le altre maison del lusso non seguano il suo esempio e facciano vedere effettivamente quante persone lavorano nel loro indotto. Credo purtroppo che i grandi brand siano restii a raccontare la filiera perché non vogliono darle potere. Tutto ruota intorno al grande segreto di Pulcinella: spesso i fornitori, quindi gli attori della filiera, non possono dichiarare per quali brand lavorano”.
Ci sono comunque esempi meritevoli di luxury brand che sanno mostrare anche parte della produzione e non solo capi e accessori pronti per essere esposti in vetrina: “Gucci col cambio di strategia sta facendo un lavorone enorme – asserisce Auzino -. Stefano Cantino (CEO di Gucci, ndr) è bravissimo, finalmente è tornato a parlare degli accessori perché Gucci è un brand di accessori, quindi necessariamente si devono mettere in luce scarpe e borse. Mi piace molto anche Etro, il direttore creativo Marco De Vincenzo è nato con la pelletteria perché se ne occupa da Fendi, si vede l’impostazione sugli accessori. Anche Fendi fa molta narrativa su tutto quello che, ad esempio, è legato alla ‘Baguette’: le varie lavorazioni, tutte le collaborazioni che ha realizzato con le manifatture sui territori”. “Ultimamente Dior sta facendo un grande lavoro e con piacere ho visto che ha iniziato a citare alcuni fornitori, ad esempio i ricamifici e i tessitori, anche italiani – aggiunge Salerno -. Thom Browne non racconta molto la filiera concentrandosi sul processo di creazione, in occasione del Met Gala ha fatto vedere proprio i campioncini dei ricami e i capi finiti, il work in progress. Victoria Beckham qualche mese fa ha mostrato il laboratorio pugliese dove fa i suoi denim. È stata un’ottima scelta. Il mio rammarico è che i marchi italiani non facciano altrettanto”, conclude.

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